sabato 2 gennaio 2010

Mafia 20

“Il Lato Oscuro del Potere: Il Sanguinario Gioco dei Predestinati”


(1860 1950)

Ci sono persone nel mondo che nascono con un compito molto particolare da dover svolgere. Questo particolare compito, qualunque esso sia, queste persone non possono proprio fare a meno di portare avanti il loro lavoro perché, sia il motivo per cui lo svolgono, sia la dedizione profusa, nel compiere fino alla fine il proprio dovere, sono inscritte, nel loro “DNA Socio-Culturale”. Questi determinati individui, avvolte, compiono così bene il proprio dovere da lasciare, anche senza volerlo, un “Segno Indelebile” nella Storia della nostra società e nell’“Immaginario Collettivo”. Essi, se stessimo scrivendo un “Romanzo Giallo”, potremo definirli “Pedine” di un “Macabro Gioco di Potere”. Un’“Intensa”, però, “Geniale Partita” giocata da menti fredde e calcolatrici, acuminate quanto la lama di un pugnale che nei fatti obbediscono soltanto alla “Legge della Giungla”. Questo spietato confronto si è sempre svolto e si svolge, ancora oggi, su molteplici piani d’“Interesse Strategico Politico-Militare” e infine anche economico. L’“Ambito Trofeo” di questa ferale, ma invisibile contesa, anche se il “Campo da Gioco”, in questo caso, è estremamente ampio e mutevole, è, purtroppo, sempre lo stesso: il “Potere Assoluto” anche se mascherato da “Istituzioni Democratiche”. Le controparti di questa “Tetra Disputa”, chiunque esse siano, col passare del tempo, si sono oltre modo convinte di lavorare per un “Interesse Superiore”, che ciò che compiono, per quanto sia disdicevole, orrendo, mostruoso, è eseguito per il bene di tutti e che se non fossero intervenuti loro, lo avrebbe fatto qualcun’altro. L’essenza del loro potere sta nell’assoluta e “Impenetrabile Segretezza” su tutto ciò che fanno; ragion per cui se per una fortuita coincidenza, una “Persona Comune”, dovesse incontrare qualcuno di quegli individui, quest’ultimo per rispondere in maniera esauriente al “Suo Incalzante Interlocutore”, che gli chiedesse ragione di una determinata cosa, potrebbe dire: “A volte Siamo Travolti da un Gioco molto più Grande di Noi”. Questo è il mondo in cui vi voglio portare oggi. Un “Invisibile Universo Parallelo” composto di ricatti, calunnie, che se dette in un certo qual modo, possono sembrare veritiere, segreti, possibilità d’intervenire su una certa cosa grazie a ciò che si sa, minacce velate ed esplicite. Un intrigo vorticoso e miserabile, un “Sistema di Potere Interconnesso” di “Pupi” e di “Pupari” in cui tutti sono controllabili da tutti e nessuno è, all’occorrenza, indispensabile. Gli “Oscuri Ingranaggi” di questo “Inestricabile Meccanismo”, infatti, sono come “Professori d’Orchestra” che dirigono un concerto la cui musica, anche se guidata in modo magistrale da un “Unico Direttore”, non si ferma soltanto perché quest’ultimo in qualche modo è venuto a mancare, ma “Continua Imperterrita”. Questa “Oscura Sinfonia”, infatti, pregna in modo sostanziale e profondo la mente e lo spirito di quegli uomini e li attrae verso il cuore di questa determinata struttura e li invita, anche se per un breve periodo, a prendere il comando di un qualche livello della “Piramide” e a guardare gli altri, parte integrante del medesimo mondo, come i cobra osservano le proprie prede. Le loro vite, i loro destini, infatti, sono intrecciati come i fili di una “Smisurata Ragnatela”. Essa, infatti, è così sesquipedale, così intrigata, che è quasi impossibile comprendere dov’è l’origine di questa “Oscura Matassa”. Lo stesso “Orchestratore di Turno”, di questa “Macabra Melodia”, infatti, è talmente condizionato da questa “Lugubre Cantilena”, da essere lui stesso, la “Prima Marionetta” asservita agl’“Altri Pupazzi” sempre pronti a prendere il posto del “Loro Amico” approfittando di una “Sua Semplice Debolezza”. Questo folto gruppo d’individui è composto da uomini, ma ultimamente anche da donne, di ogni “Estrazione Sociale”. Essi, infatti, sono entrati, in questa “Particolare Casta”, soltanto grazie alla loro “Innata Capacità” di capitalizzare, la “Propria Istruzione”, (di qualunque grado essa sia), e la propria “Cultura di Vita”, per riuscire a primeggiare sugli altri. Questo particolare talento, nel corso della Storia dell’uomo, è stato chiamato in molti modi: “Leadership”, “Potere”, “Carisma” ed etc. Io, però, preferisco chiamarlo “Supremazia Psicologica”. Essa è in grado di far schiudere le “Porte del Successo” a qualsiasi persona e di farla arrivare fino in cima. Questi determinati individui, infatti, in nome di questa loro “Straordinaria Virtù”, si possono definire, a mio parere, “Predestinati”. Questa particolare dote, però, di per se stessa, non è né buona, ne cattiva. La sua conformazione, infatti, dipende esclusivamente dalle esperienze che una persona fa. La sua essenza, invece, quella “Strana Pira Lucente”, che arde negli spiriti di queste persone, può bruciare, come le “Fiamme dell’Averno”, ma anche riscaldare come il “Sole Estivo”, dopo un “Rigido Inverno”. I predestinati, infatti, si possono considerare come “Pezzi” di un’“Enorme Scacchiera da Gioco” appartenente a un “Solo Grande Padrone” malato di “Schizofrenia”, che oltre a essere un “Pazzoide”, è anche un “Ingrato”, a cui la “Vita Umana”, non importa nulla. Gli schieramenti messi in campo, per questo “Dilaniante Scontro”, infatti, si fronteggiano in un modo estremamente sanguinoso e a volte non sanno neanche loro il perché. Questa, signore e signori, è la loro Storia; una tragica, avvincente epopea, che purtroppo, non è ancora finita. Essa, infatti, come un “Virus Mutante”, percorre la “Storia Evolutiva”, degl’ultimi due secoli, del “Quadro Geo-Politico Occidentale” e ne infetta, come un “Cancro”, silenziosamente, ma in modo inesorabile, il cuore diventandone, in questa maniera, il “Lato Oscuro”. La prima pedina, di questa “Lugubre Competizione”, che vi presento quest’oggi, si chiama: Emanuele Notarbartolo. Il “Marchese Notarbartolo”, “Esponente di Primo Piano” della “Destra Storica”, nella “Realtà Siciliana”, si è sempre battuto contro la corruzione e il malaffare. Il primo febbraio 1893, però, questo integerrimo, onesto galantuomo, muore ucciso da due “Mafiosi”, almeno secondo l’“Accusa”, appartenenti alla “Cosca di Villa-Abate”, guidata all’epoca, da Giuseppe Fontana. Quest’ultimo, però, ha commesso questo “Efferato Delitto”, per conto di un “Suo Referente Politico” chiamato Salvatore Palizolo. Palizolo, infatti, secondo quanto è emerso da alcune “Indagini Personali”, condotte dal figlio del marchese, era un “Membro del Parlamento”, attaccato dal “Nobile Siciliano”, perché coinvolto in alcuni “Scandali Finanziari” al “Banco di Sicilia”. I tre “Gradi di Giudizio del Processo”, che avranno luogo, prima a Milano, poi a Bologna e infine a Firenze, (basati quasi esclusivamente sull’inchiesta portata avanti dal figlio di Notarbartolo), si concludono tutti, dopo una prima condanna, con una “Generale Assoluzione per Insufficienza di Prove” e con l’affermazione che la “Mafia Non Esiste”, è soltanto un’invenzione dei giornali per screditare la Sicilia. La “Tragica Vicenda” del marchese Notarbartolo, però, aldilà delle “Responsabilità Individuali”, pone in luce un elemento essenziale per il “Tetro Affresco” che stiamo ricostruendo: “I Mafiosi”, come afferma lo storico Salvatore Lupo, “sono Parte della Struttura del Potere nella Sicilia Occidentale, in particolare nella Provincia di Palermo, di Trapani e di Agrigento, sino dall’Unità d’Italia”. I “Significati Etimologici”, attribuiti alla “Parola Mafia”, sono molti e tutti differenti. Quello più probabile, però, è stato dato, a mio parere, dallo “Storico di Tradizioni Popolari”, Giuseppe Pitrè. Egli, infatti, ha individuato l’origine della parola in una “Espressione Dialettale Specifica” di un determinato “Rione di Palermo” che starebbe a indicare bellezza, audacia, coraggio, superiorità. Un “Mafiusu”, quindi, secondo tale interpretazione, sarebbe stato, (almeno all’inizio della sua storia filologica), un “Uomo Coraggioso”, fiero ed etc. L’“Unità d’Italia”, avrebbe poi contribuito, in maniera non esplicita, (almeno secondo Pitrè), a tramutare il suo “Significato Originario” da positivo a negativo facendolo diventare sinonimo di “Brigantaggio” e di “Malandrinaggio”. Il “Dramma Dialettale”, chiamato “I Mafiosi di la Vicaria”, scritto nel 1863 da G. Rizzotto, è, per così dire, l’emblema di questa “Svolta Negativa”. Questo “Spettacolo Teatrale Innovativo”, infatti, ha avuto il compito di far conoscere il “Termine Mafia” al “Grande Pubblico”. La prima persona, invece, a usare la parola mafia, in “Senso Moderno”, è stato il “Prefetto di Palermo”, Gualtiero, nel 1865. Negl’anni settanta dell’ottocento, invece, ha inizio una vera e propria fortuna per questo termine che incomincia a comparire anche nei “Documenti Ufficiali”. Esso, infatti, si può trovare in tutta una serie di comunicazioni di “Funzionari dello Stato Italiano”. Questa particolare documentazione, già all’epoca, individua, in questo specifico termine, un’“Associazione per delinquere” molto particolare con leggi proprie che ne fanno, quasi, un mondo assestante che, silenziosamente, si è sempre mosso, sviluppato, rafforzato sotto i nostri occhi che non volevano o non potevano vedere, comprendere. Lo svilupparsi di questa “Metastasi Criminale”, ormai, è cosi imperante, nella “Nostra Società Globale”, che questo particolare termine è diventato emblematico di un comportamento diffuso in tutta la “Nostra Realtà Contemporanea” locale e internazionale che, col passare del tempo, si è ben radicato nel profondo di “Molte Coscienze Individuali”. Il termine mafia, infatti, è diventato, ormai, una “Parola Polisemica”, che si riferisce a fatti differenti a seconda dei contesti e delle circostanze. Nel mondo, infatti, esistono differenti tipologie di “Mafie”. Esse, però, sono tutte composte dalla medesima essenza di violenza, sopraffazione e di omertà. Quelle, con la “Maggior Forza Espansiva”, però, rimangono sempre le organizzazioni criminali d’origine italiana. Quest’ultime, infatti, anche a causa del “Grande Flusso Migratorio”, avutosi tra la seconda metà dell’ottocento e buona parte del novecento, (con più di ventiquattromilioni di partenze), sono state in grado d’attecchire nelle “Terre d’Arrivo” e di sfruttare la misera dei loro vecchi e nuovi concittadini per diventare ancora più potenti di quanto non lo fossero già. Il loro potere, infatti, grazie a tutto ciò si è esteso a macchia d’olio, sia in Europa, sia in America. La creazione dello “Stato Italiano”, comunque, comportò all’epoca, anche una “Forte Emigrazione Interna” con molte persone che si spostarono dal sud del paese per andare verso il nord o verso il centro. Molti di questi emigranti, “Ex Cittadini del Regno delle due Sicilie”, erano membri organici della mafia. Costoro, infatti, (fino a poco tempo prima), con lo strutturarsi del “Nuovo Apparato Amministrativo Statale”, proprio in virtù della loro, se pur “Anomala Esperienza Lavorativa”, diventarono, (almeno formalmente), “Tutori dell’Ordine Pubblico” o “Principali Membri delle Amministrazioni Locali”, altrimenti detti: “Capi-Rais”. I piemontesi, infatti, capirono quasi subito che, con i “Normali Mezzi Amministrativi”, era impossibile governare in quelle “Lontane Terre”. Il “Nuovo Ceto Politico”, quindi, decise di fare “Patti di Mutuo Interesse” col “Mafioso Locale”. Costui, infatti, amministrava la “Sua Giustizia”, anche sommaria, risolvendo problemi che l’amministrazione, proveniente dal nord dell’Italia, non riusciva neanche a inquadrare; sopperiva, col “Suo Paternalismo Interessato”, a risolvere questioni che lo Stato invece accentuava e, agli occhi del popolano più misero, risultava, quindi, più efficiente e “Giusto”. I “Notabili Locali” e le “Nuove Classi Dirigenti”, infatti, si adattarono molto presto a tutto ciò. Una volta, però, consolidato stabilmente, il dominio, sulle “Loro Terre Natie”, per conto del “Governo Centrale”, i mafiosi pretesero anche di poter partecipare alla “Vita Politica Nazionale”, piazzando, i propri uomini, in parlamento. La mafia, in sostanza, fin dall’inizio, fin da quando è nata, fa politica. I vari “Uomini Politici”, infatti, hanno sempre saputo, almeno all’inizio della “Nostra Storia Unitaria”, a chi rivolgersi per avere un buon numero di voti durante le elezioni. Le “Varie Organizzazioni Mafiose”, presenti nella penisola, infatti, erano le uniche, all’epoca come oggi, a sapere come organizzare e guidare il “Consenso Elettorale”. I mafiosi trapiantati in America, dal canto loro, riuscirono a installare, in “Terra Straniera”, un vero e proprio “Stato Ombra” completamente basato sulla violenza e sul terrore. Gli “Stati Uniti”, infatti, essendo all’epoca ancora, (come l’Italia del resto), un paese politicamente giovane, non potevano contrastare, in modo efficace, un “Forte Clientelismo” interamente impregnato di una “Sanguinaria Violenza Gratuita” e di un “Servilismo Psicologico Feudale” del più debole verso il più forte che, in qualche maniera, rasentava la “Schiavitù”. La “Supremazia Psicologica dei Boss Mafiosi”, infatti, all’epoca, come oggi, si espletò, in molti casi, anche in una sorta di “Autoritarismo Dittatoriale Paternalista”. Costoro, infatti, erano, ieri come oggi, in grado di trovare, per’esempio, un “Lavoro” all’immigrato di turno che si presentava. Il loro “Carismatico Potere”, però, non si fermava semplicemente a far ciò. Essi, infatti, potevano trovare, grazie al proprio “Connaturato Ascendente”, su una larga fascia di popolazione appena o in procinto di essere politicamente naturalizzata, gli “Agganci Politici Necessari”, spesso, (per lo meno all’epoca), del “Partito Democratico”, adatti per avere, in cambio di un numero sempre maggiore di voti, la più “Ampia Libertà Imprenditoriale”. Tutto ciò è stato possibile perchè, già nel 1905, per’esempio, nel quartiere di “Elisabeth Street” a New York, erano arrivati 8200 italiani, la cui maggior parte era composta da siciliani. Nel 1919, invece, arrivarono a essere occupate il 75% delle “Banchine Portuali” da nostri connazionali. Le “Organizzazioni Malavitose”, in tale contesto, fecero crescere le proprie “Attività Criminali”; mantenendo, però, sempre i rapporti con la “Madrepatria”. La mafia, è sempre stata, in sostanza, una “Marcata Rappresentazione”del “Machiavellico Sistema” che ho cercato di portare alla vostra attenzione, fino a poco fa. Il primo uomo, a tentare di contrastare seriamente questi “Pazzi Criminali”, fu proprio un “Poliziotto Newyorchese”, figlio di quella “Prima Generazione d’Immigrati Speranzosi”, chiamato Joe Petrosino. Giuseppe Petrosino, detto Joe, nacque a Padula nel salernitano il 30 agosto 1860. Emigrò, giovanissimo, nel 1873 alla volta di New York col padre Prospero, sarto, e l’intera famiglia composta dalla madre, da due sorelle e da tre fratelli. In un primo momento, quale primo figlio, si adattò a tutti i mestieri al fine di non gravare sul bilancio familiare; studiò, con “Grande Impegno”, la lingua inglese, frequentando i “Corsi Serali”. Il 19 ottobre 1883 si arruolò nella polizia di New York, indossando l’uniforme da poliziotto portante sul petto una placca d’argento con numero 285. Dopo un breve periodo di rodaggio come “Agente di Pattuglia” nella “Tredicesima Avenue”, cominciò a scalare i gradini della gerarchia, imponendosi a tutti per i suoi sistemi di lavoro che si ispirarono a passione per il mestiere, grande fiuto, intelligenza, senso di responsabilità, alta professionalità. Il suo grande sogno e scopo della vita fu uno solo: sconfiggere la “Mafia”, allora contraddistinta col nome di “Mano Nera”. Sposato, con una figlia compì imprese leggendarie e meritorie, guadagnandosi persino la stima del Presidente degli Stati Uniti, di cui era grande amico e dal quale aveva grandissima considerazione.

A trent’anni, promosso “Detective”, passò al “Servizio Investigativo”; nel 1895 fu il Presidente Roosvelt in persona, a nominarlo “Sergente”. Nel 1905, con la promozione a Tenente, gli fu affidato il comando dell’“Italian Legion”, cioè “Gruppi di Agenti Italiani”, a suo giudizio indispensabili, per combattere la Mano Nera. Dichiarò guerra e assicurò alla giustizia “Capi-Mafia” di altro calibro, che nessun corpo di polizia era mai riuscito a prendere, con “Imprese Funambolesche” e “Pazzeschi Travestimenti”, che gli consentirono di vivere più da vicino il “Complesso Mondo della Mafia”. Egli fu il primo a capire che la mafia, a New York, aveva le sue radici in Sicilia, tant’è vero che intraprese un viaggio in Italia, diretto appunto in Sicilia, per infliggerle il “Colpo Mortale”.

Fu ricevuto dal “Presidente del Consiglio Giolitti” dal quale ricevette in regalo un “Orologio d’Oro”.Egli, dopo essersi fermato per qualche giorno a Padula, nella sua casa Natale, ove c’era il fratello Michele. Una volta tornato nella “Sua Patria Natia”, partì alla volta della Sicilia. Avviò un grosso lavoro che l’avrebbe portato a sconfiggere definitivamente la mafia. Egli, infatti, stava indagando sul rilascio di passaporti a “Importanti Boss Mafiosi” del calibro di Giuseppe Morello, (capo della Mano Nera), Ignazio Saietta, Giuseppe Fontana e Vito Cascio Ferro. Quest’ultimo fu considerato, all’epoca, il capo della “Mafia Siciliana”, sino ai primi anni venti. La sera del 12 marzo 1909, però, nella “Piazza Marina di Palermo”, fu raggiunto da quattro colpi di rivoltella che lo fecero crollare, ucciso, al suolo. Morì da soldato, nel compimento del suo dovere, colpito alle spalle, al buio, a tradimento da una “Mano Assassina” che fermò il cammino del più forte e coraggioso poliziotto di tutti i tempi. La mafia, quindi, già all’epoca, era un’organizzazione molto potente con ramificazioni sia in Italia, sia all’estero. L’“Epoca D’Oro” di “Cosa Nostra Americana”, così la chiamò Salvatore Maranzano, iniziò soltanto, a metà degl’anni venti. Benito Mussolini, infatti, nel 1925 mandò a Palermo, il prefetto Cesare Mori, con pieni poteri. Costui, fin da subito, si dimostrò inflessibile nell’applicazione del “Proprio Mandato”. Egli, infatti, organizzò retate da “Paese Occupato”, (con donne e bambini presi in ostaggio), fece sciogliere il “Fascio di Palermo” per “Infiltrazione Mafiosa”, sotto la sua guida, bastava semplicemente essere sospettati di far parte della mafia, per vedersi mandare in carcere al “Confino”. Mori, fece perfino, espellere, per “Collusione Mafiosa”, il dottor Alfredo Cucco, membro del “Gran Consiglio del Consiglio del Fascismo”. L’“Ala Militare” della “Mafia Siciliana” dell’epoca, quella con la “Coppola” e con la “Lupara”, fu completamente spazzata via. Mussolini, però, nel momento in cui, il “Prefetto di Ferro”, (soprannominato così per la sua intransigenza), iniziò a indagare sulle complicità tra mafia e mondo politico, lo ringraziò pubblicamente, lo fece nominare “Senatore del Regno d’Italia” e lo mise, definitivamente, a riposo, con la “Banale Scusa”, che aveva raggiunto i limiti d’età. Cesare Mori, in buona sostanza, scompare dalla scena e di lui non si seppe più nulla. Il lavoro, all’epoca compiuto da Mori, però, provocò un’“Emigrazione Forzata” di molti boss che andarono a rimpinguare le fila della “Mafia Americana”. Questo, infatti, è il momento dell’ascesa di Al-Capone, Bugsy Siegel e tanti altri. Questi stessi mafiosi, nel 1943, furono coinvolti dal “Governo Americano”, nella pianificazione e nell’attuazione della cosiddetta “Operazione Husky”. Questa particolare denominazione non indicava, nient’altro, che lo “Sbarco Alleato” in Sicilia. Il maggior collaboratore degli alleati, in tal caso, fu Salvatore Lucania, altrimenti detto, Lucky Luciano. Costui, all’epoca, era a capo della “Famiglia Genovese”. Luciano, in realtà, già una volta, aveva aiutato gli uomini del cosiddetto “OSS (Office Strategic Services)”. Nel 1942, infatti, mentre Luciano, era nel “Carcere di Massima Sicurezza di Clinton” nel New Jersey, (per scontare una pena a cinquant’anni, per “Traffico di Droga” e “Sfruttamento della Prostituzione”), andarono a trovarlo alcuni “Ufficiali della Marina Statiunitenze” in compagnia del suo avvocato, Moses Polakoff. Costoro presero contatto con Luciano, grazie all’imbeccata di uno dei suoi uomini, Joe Lanza. Joe Lanza aveva, all’epoca, un soprannome molto particolare: “Socks” che significa “Calzino”. Socks curava, all’epoca, per conto della famiglia Genovese, gli affari nel porto di New York. La “Marina Militare Americana”, infatti, si mise in contatto con Socks e poi con lo stesso Luciano, proprio per risolvere un annoso problema che affliggeva, le sue imbarcazioni ormeggiate in quel determinato luogo. Queste particolari imbarcazioni, infatti, avevano subito, fin dall’anno prima, molte “Azioni di Sabotaggio”. Il nove febbraio 1942, per’esempio, ci fu un “Misterioso Incendio” a bordo della “Normandie”. La Normandie era una nave della “Marina Civile Francese”; poi, pero, la Francia decise di cederla agli “Stati Uniti”. La nave Normandie arrivò, nel porto di New York, il 28 agosto 1939. In quello stesso giorno, Hitler, diede inizio all’invasione della Polonia. Questa imponente nave, all’inizio, a causa dell’indecisione, delle “Autorità Americane”, rimase internata nel porto newyorchese fino al 1941. L’“Esercito Statiunitenze”, immediatamente dopo l’“Attacco Giapponese” alla “Base di Pearl Harbour”, infatti, decise di trasformarla in una “Nave-Appoggio” della marina militare. La trasformazione, però, non riuscì. L’incendio del 42, infatti, unito al peso delle attrezzature per trasformarla, la fece inclinare su un lato e affondare. L’affondamento della Normandie, anche se molto probabilmente, fu solo un incidente, spaventò molto le autorità. Esse, infatti, secondo Anthony Marsloe, (“Ex Ufficiale dei Servizi Segreti U.S.A.”), fin dal 1939, avevano perso già 151 “Navi Mercantili Statiunitenze”, nel bel mezzo dell’atlantico, attaccate da “Sottomarini Tedeschi”. I servizi segreti americani, infatti, sempre secondo Marsloe, erano, oltre modo impegnati a scoprire come si effettuavano i rifornimenti di carburante ai cosiddetti “U-Boat Nemici”. Un altro “Importante Enigma”, infine, riguardava la tempistica degli “Attacchi Subacquei Tedeschi”. Le autorità americane, infatti, sospettavano che ci fosse una “Talpa” nei pressi del porto di New York che informava i “Nazisti” della rotta percorsa dalle navi contenenti i carichi più importanti. Questa sorta di “Blocco Continentale Marittimo”, attuato da Hitler, per impedire i rifornimenti all’Inghilterra, spinse, fin quasi sotto le “Coste Americane”, i “Sommergibili Tedeschi”. Tutti questi problemi, stranamente, si risolsero, quasi in un baleno, quando intervennero Socks Lanza e Lucky Luciano che sfruttarono al meglio le loro conoscenze nell’“Ambiente Portuale Newyorchese”. Il governo americano, dal canto suo, come premio per questa “Prima Collaborazione” fece trasferire Luciano dal carcere di Clinton a quello di Great Meadow in Comstock, nello stato di New York. In questo particolare carcere, infatti, c’erano molte più libertà, tanto da essere chiamato, nell’“Ambiente Mafioso” dell’epoca, il “Country Club”. Lucky Luciano, infatti, da li, riusciva a impartire ordini e a dirigere i suoi affari molto meglio di prima. Questo “Particolare Trattamento di Favore”, però, aveva un motivo ben preciso. Gli “Alleati”, infatti, in quel periodo, si stavano preparando allo “Sbarco Alleato in Sicilia”. L’“Alto Comando dell’OSS”, in previsione di ciò, aveva creato la cosiddetta “Sezione Italia”. La “Sezione Italiana dell’OSS”, all’epoca, era guidata da James Jesus Angleton. Angleton, secondo quanto raccontato dallo storico Nicola Tranfaglia, nacque in una “Famiglia Massonica”. Egli, essendo cresciuto in casa di un industriale presidente della “Camera Italo-Americana”, durante alcuni anni del fascismo, in Italia, fu destinato a una folgorante, nonché misteriosa carriera, nei “Servizi Segreti Americani”. Egli, infatti, fu, innanzi tutto, (dal 1941 al 43), una sorta di “Agente di Collegamento” tra il “Servizio Segreto Britannico” e il “Neonato OSS”, poi responsabile del “Desk Americano” in Italia dal 43 al 45 e infine fu anche implicato, secondo quanto sostenne il “Procuratore Distrettuale di New Orleans”, (Jim Garrison), nell’“Omicidio Kennedy”. Angleton, insieme al “Suo Braccio Destro” dell’epoca, Earl Brennan, scelse un piccolo ma strano gruppo di persone per creare la “Squadra Italiana dell’OSS”. Essa, infatti, era formata da: Frank B. Gigliotti, (Massone reverendo di una chiesa metodista di Lemon Grace in California), Vincent Scamporino, (avvocato di famiglie mafiose italo-americane), Victor Anfuso , (anche lui avvocato) e infine da un ragazzo di circa vent’anni appassionato di romanzi gialli, originario di Melilli, (in provincia di Siracusa), chiamato Max Corvo. Questi cinque individui, in buona sostanza, sarebbero dovuti essere tutti, ogn’uno a modo suo, “Esperti di Affari Italiani”. Lo stesso Brennan, infatti, era stato, prima della guerra, “Vice Console” a Firenze per conto del governo americano. Il bizzarro gruppo del comandante Angleton, infatti, come si può comprendere dalla “Privilegiata Testimonianza” di un altro importante agente americano, di quel periodo, di nome Peter Tompkins, era composto da persone, completamente a digiuno, di “Cultura Italiana”. Esse, però, grazie anche a “Alcuni Amici”, contattati tramite Lucky Luciano, riuscirono ad’ambientarsi presto. Lucky Luciano, infatti, soprattutto nel “Sud’Italia”, (Sicilia e Campania), aveva molte “Vecchie Amicizie”. Quest’ultime, in cambio di alcuni “Posti di Potere” nella “Nuova Amministrazione”, fornirono molto volentieri aiuto e “Supporto Logistico”, sia all’“Esercito Anglo-Americano”, sia a quelli dell’OSS. Quelli dell’“OSS Italiano”, infatti, non appena sbarcarono in Sicilia, corsero a Favignana. In quell’isola, infatti, c’erano rinchiusi, all’epoca, i “Principali Capi-Mafia Siciliani” arrestati durante il fascismo. I “Reparti Speciali dell’OSS”, però, non liberarono soltanto quelli detenuti a Favignana, ma ci furono, scarcerazioni di tal genere, in tutta la Sicilia. Alcune, di queste persone liberate, erano: Calogero Vizzini, altrimenti detto “Don Calò”, (nominato dall’esercito americano sindaco di Villalba), Giuseppe Genco Russo, anche conosciuto come “Zu Peppi Jencu”, (nominato, sopraintende all’assistenza pubblica di Mussomeli), Vincenzo Di-Carlo, (responsabile degli ammassi di grano presso l’amministrazione di Mussomeli), Salvatore Malta, (nominato sindaco di Valle-Lunga), nella città di Palermo, infine, tanto per fare un altro esempio, fu nominato sindaco un altro cosiddetto “Uomo d’Onore” di nome Lucio Tasca. La “Nuova Amministrazione Anglo-Americana”, infatti, non conoscendo quasi nulla del suo primo “Territorio Liberato”, si era completamente fidata delle parole di Lucky Luciano. Costui, infatti, molto probabilmente, per riuscire a far dare “Maggiori Poteri” ai suoi amici della terra natia, aveva detto all’esercito americano, che il “Popolo Siciliano” era soltanto un “Branco di Pecoroni Abbrutiti” da governare con la frustra. Gli angloamericani, infatti, appena arrivarono sull’isola, trattarono, quella “Bella Terra”, alla stregua di una “Colonia”. Tutto ciò, a mio parere, potrebbe essere comprovato da una testimonianza rilasciata, alcuni anni fa, da uno dei cittadini di Villalba di nome Michele Pantaleone. Costui, in quell’intervista, infatti, raccontò che quando Calogero Vizzini diventò sindaco di Villalba, il “Tenente dell’Esercito Alleato”, Joe Calderon, che accompagnò l’anziano capo-mafia, nel suo paese natio, si rivolse alla popolazione, fatta riunire per l’occasione, e disse: “Questo Essere Vostro Padrone”. La stretta collaborazione tra la mafia e l’OSS è stata posta in luce anche dalla privilegiata testimonianza del capitano Josef Russo, membro dei servizi segreti americani. La squadra italiana dell’OSS, in virtù, di strettissima con “Ambienti Mafiosi”, si meritò l’“Inquietante Nomignolo” di “Cerchio della Mafia”. Questa particolare denominazione, fu considerata così calzante, da essere riportata anche in alcuni “Documenti Ufficiali”. Gli uomini di Angleton, però, non ebbero “Rapporti d’Affari”, soltanto con la “Criminalità Organizzata”, ma anche con altri personaggi, altrettanto inquietanti. La seconda guerra mondiale, almeno in Europa, si concluse, ufficialmente, il 25 aprile 1945. I tedeschi e i fascisti, o si ritirarono, o si arresero. Le “Formazioni Partigiane”, uscite dalla clandestinità, arrestarono molte persone accusate di “Crimini di Guerra”. Tra gli arrestati, c’era anche un “Generale Brigata”, appartenente alla “Nobiltà Romana”. Costui era Junio Valerio Borghese, altrimenti detto il “Principe Nero”. Questo nobile romano comandava in quegl’anni la cosiddetta “X Mas”. Il principe Borghese fece diventare la sua squadra, una sorta di “Esercito Privato”, dopo la creazione della “Repubblica di Salò”. I membri di questo particolare reparto di elite, infatti, arrivarono ad essere più fedeli al loro nobile comandante che a Mussolini e al fascismo. Gli uomini di Borghese in quegl’anni concitati combatterono su due fronti. Una parte di loro, infatti, partecipò ai rastrellamenti contro i partigiani assieme ai reparti delle “SS Tedesche” compiendo molte uccisioni. L’altra parte, invece, combatteva assieme all’esercito tedesco contro quello alleato. Gli uomini del principe nero, al termine della guerra, infatti, a causa delle molte carneficine commesse, in nome dei “Loro Valori”, furono accusati di crimini di guerra. Il 9 maggio del 1945, però, Borghese fu preso in consegna da Angleton e da Carlo Resio che lo fecero travestire da ufficiale americano mettendolo in salvo e proponendogli una sorta di patto scellerato. Le motivazioni, di quella “Strana Liberazione”, furono esposte il 6 novembre dello stesso anno dal comandante Angleton in una lettera inviata al comando generale alleato. In questo particolare documento c’era scritto che “Borghese Riveste un Grosso Interesse di lungo periodo all’Interno del Nostro Lavoro”. Il principe nero, però, non fu l’unico ad essere liberato. Il comandante Angleton, infatti, fece pressioni perché molti uomini della X Mas fossero trattati diversamente e resi immuni ad ogni imputazione. Molti di loro furono addirittura inviati in America per un periodo di addestramento. La domanda sorge spontanea: perché tutto questo? La storia che stiamo raccontando, non dobbiamo dimenticarcelo, è una storia fatta di misteri, doppie verità e strane coincidenze perché, come in un gioco di scatole cinesi, ogni verità ne nasconde un’altra. In quel preciso periodo si riaccesero, inspiegabilmente, le azioni di “Gruppi Neo-Fascisti”. Questi gruppi erano: le “SAM”, (Squadre Azioni Mussolini), il “FAR” (Fronte Armato Rivoluzionario). Tali mostruose attività, però, non furono compiute in tutta la penisola, come si potrebbe razionalmente pensare, ma soltanto in Sicilia. La terra natia di Pirandello, infatti, è sempre stata il “Campo da Gioco” preferito dagli intrighi internazionali delle potenze mondiali. Nel 1943, quando gli Americani, gli Anglo-Americani invasero la Sicilia, iniziarono nell’isola i primi fermenti del “Movimento Separatista della Sicilia”. I membri di questo gruppo isolano erano oltre 500.000 ed erano appoggiati dagli agrari, dalla proprietà latifondista e dagli Americani, tale gruppo si divideva in due fazioni: una voleva l’indipendenza siciliana dal resto dello “Stivale”, l’altra invece, spingeva affinché l’isola diventasse la 49° stella della bandiera Americana. Nell’autunno del 1944, durante il primo congresso che si celebrò a Taormina, fu presa la decisione di passare alla lotta armata, anche in risposta alle continue e arbitrarie violenze (si veda ad esempio la strage di via Maqueda che si consumò a Palermo proprio durante il primo congresso indipendentista) che erano perpetrate dalle forze dell’ordine italiane ai danni di sedi ed esponenti del MIS. Il MIS, in buona sostanza, influenzato dalla sua ala oltranzista, tentò l’insurrezione separatista con la formazione dell’“Esercito Volontario per l’Indipendenza della Sicilia (EVIS)”, la cui attività di guerriglia e resistenza fu talmente veemente, che per contrastarla, il governo fu costretto ad inviare in Sicilia l’Esercito Italiano. Tra i membri di questo esercito c’era Salvatore Giuliano. Egli fu, come afferma lo storico Francesco Renda, reclutato dal movimento separatista e diventò “Colonnello dell’Esercito per l’Indipendenza della Sicilia”. Egli, dimostrando più volte di essersi meritato i suoi gradi di colonnello avuti ad’honoris causa, passò, con “Grande Perizia” ed efficacia, dal “Furto di Bestiame”, “Sequestro di Persona”, “Estorsione”, “Rapine”, (tutti reati commessi tra Monte-Lepre, Castellamare del golfo, Alcamo, San Giuseppe Jato guadagnandosi la fama di un “Robin Hood Casereccio”), alla “Guerriglia Organizzata” contro l’esercito italiano, a funambolici e strabilianti attentati contro le forze dell’ordine, al sabotaggio. Il 19 agosto 1949, per’esempio, attaccò la caserma di una borgata in provincia di Palermo, chiamata Bellolampo. I rinforzi, non appena lo seppero, partirono immediatamente, dal “Capo-Luogo Siciliano”, per aiutare i colleghi in pericolo. Giuliano, però al loro arrivo, era già scomparso. “Turiddu”, però, per quella sera, aveva in mente un’altra “Bella Sorpresa” per le “Forze dell’Ordine Palermitane”. La “Banda Giuliano”, fece esplodere una “Mina Anticarro”, sulla strada che da Partinico conduceva a Palermo, proprio nel momento in cui, passava la colonna di automezzi palermitana impegnata nel riportare alla base gli ormai “Vani Rinforzi” per Bellolampo. La deflagrazione investi l’ultimo mezzo, con a bordo 18 carabinieri, di una colonna composta da 5 autocarri pesanti e da due autoblindo che trasportavano complessivamente 60 unità del “12° Battaglione Mobile Carabinieri di Palermo”. L’esplosione dilaniò il mezzo e provocò la morte di sette giovani militari, di umili origini, provenienti da varie città italiane: Giovan Battista Aloe classe 1926 da Cosenza (Lago), Armando Loddo classe 1927 da Reggio Calabria, Sergio Mancini classe 1925 da Roma, Pasquale Antonio Marcone classe 1922 da Napoli, Gabriele Palandrani classe 1926 da Ascoli Piceno, Carlo Antonio Pabusa classe 1926 da Cagliari e Ilario Russo classe 1928 da Caserta. Altri dieci carabinieri rimasero feriti, alcuni subendo gravi mutilazioni. Tra i feriti vi fu anche il trentacinquenne Tenente Ignazio Milillo, comandante della Tenenza suburbana di Palermo. La guerra dello Stato italiano contro Giuliano, perché di questo si trattò, di un vero e proprio “Scontro Bellico”, costò alle “Giovani Istituzioni Italiane”, la vita a 4 soldati dell’esercito, 81 carabinieri e 21 poliziotti. L’agire di Turiddu, però, almeno secondo la sorella Mariannina Giuliano, intervistata dalla “RAI” a metà degl’anni 80, fu sempre in nome del “Separatismo Siciliano”. Tutte le “Vittime” della Banda Giuliano, quindi, sarebbero state il risultato, sempre secondo i familiari di Giuliano, di una lotta per la “Libertà Siciliana”. Lo Stato, nel tentativo di fermare l’“Esercito Separatista”, ma soprattutto per “Eliminare dalla Scena” Giuliano, istituì l’“Ispettorato Generale di Pubblica Sicurezza” col compito di coordinare le azioni tra carabinieri e polizia comandato dall’“Ispettore Ettore Messana”. Messana, però, dopo qualche tempo, almeno ufficialmente, dovette abbandonare l’“Infernale Caccia”. Il comando delle operazioni, infatti, dopo vari avvicendamenti, passò a Ciro Verdiani. L’ispettorato, però, nonostante tutto, non produsse, purtroppo, alcun risultato. Lo Stato, infatti, decise di costituire il “C.F.R.B. (Corpo-Forze-Reppressione-Banditismo)”. La direzione di questo nuovo corpo fu affidata ai carabinieri. Il comandante designato, di questa determinata squadra, fu il “Colonnello Ugo Luca”, “Braccio Destro” dell’ispettore Messana. La “Continua Collaborazione-Concorrenza” tra polizia e carabinieri fu un elemento che contraddistinse tutta la storia della caccia al “Bandito Giuliano”. Le forze dell’ordine, infatti, dovettero fare i conti con “Continui Depistaggi Incrociati”, ostacoli e un “Insano Spirito Agonistico” che, di volta in volta, resero inservibili gl’informatori e confidenti sia della polizia, sia dei carabinieri. I diretti sottoposti del colonnello Luca erano: il “Capitano Antonio Perenze”, il “Tenente-Colonnello Giacinto-Paolo Antoni”e il “Maresciallo Giovanni Lo-bianco”. Costoro ebbero il comando di: 26 ufficiali del corpo dei carabinieri, 16 ufficiali di pubblica sicurezza, 1500 carabinieri e cinquecento poliziotti. 2542 uomini sparsi, su una superficie geografica di quattromila Km quadrati. L’intera isola, infatti, fu divisa in 70 sotto-zone. Il controllo, di ogn’una di queste arie, fu affidato a “Squadriglie” e a “Comandi Intermedi”. Molti membri del C.F.R.B. avevano già avuto occasione di combattere il cosiddetto “Banditismo” in Libia e in Etiopia. Alcuni di essi, inoltre, durante la guerra, lavorarono nei servizi segreti. I loro contatti, col mondo dello spionaggio internazionale, però, non si interruppero con la fine del secondo conflitto mondiale, ma continuarono imperterriti a tessere, in pieno silenzio, le proprie trame, come un ragno plasma la sua tela per stritolare e divorare le sue vittime. Tra il marzo e l’aprile del 1946, però, l’“Incessante Occupazione Militare del Territorio”, i “Risultati Militari” contro l’EVIS, ma soprattutto l’evoluzione democratica dello Stato Italiano, (con la concessione di un’“Autonomia Speciale” per la “Regione Siciliana”), tolsero forza al MIS. Il “Movimento Indipendentista Siciliano”, in conseguenza di tutto ciò, decise di rinunciare alla sua “Causa Separatista” e di entrare regolarmente in parlamento. Il governo italiano, sulla base di questa intesa, concesse l’amnistia. L’“Amnistia Togliatti”, però, riguardò solo gli alti gerarchi del movimento separatista. Giuliano, infatti, avendo già avuto gravi incriminazioni ben prima del 1944, non rientrò nella lista degli amnistiati. Giuliano, vista la situazione, decise di ritornare al semplice brigantaggio. La sua azione, però, si configurò come un attacco ad una “Nobiltà Agraria” accusata di vessare la povera gente. Egli, infatti, dopo ogni azione lasciava sul posto un cartello in cui vi erano delle frasi del tipo: “Giuliano non Deruba i Poveri” oppure “Giustiziato in nome di Dio e della Sicilia”. In questo ultimo periodo della sua vita, fu avvicinato da eminenti boss mafiosi come Genco Russo o come il famoso Michele Navarra altrimenti detto il “Medico della Mafia” boss di Corleone. Costoro, in realtà, fin da quando aveva fatto fuggire ben 12 persone dal “Carcere di Monreale”, l’avevano sempre spiato controllato, appoggiato, fornendogli qualche volta anche il “Necessario Supporto Logistico” per le azioni. La Banda Giuliano, infatti, secondo un certo tipo di storiografia, fu l’unica responsabile anche dell’attacco alla “Camera del Lavoro di Partinico” che all’epoca funzionava anche come “Sede del Partito Comunista”. Quella di Partinico, comunque, non fu l’unica a essere attaccata in quel determinato periodo. Le altre, infatti, furono: quella di Borgetto, Monreale, Cinisì, San Giuseppe, San Cipirrello, Terrasini. Gli studiosi di questa determinata corrente, però, non tengono conto di una cosa di cui noi abbiamo già iniziato a tratteggiare i “Terrificanti Contorni”. In quegl’anni misteriosi e drammatici, infatti, ricomparve in Sicilia un foltissimo gruppo di persone sparite, in modo misterioso, con la cacciata dei tedeschi. Molte di queste, l’abbiamo già accennato, furono mandate in America per ricevere un “Ulteriore Addestramento Militare”. Tra questi uomini, però, non c’erano soltanto quelli della X Mas, ma anche il “Federale di Firenze Massimo Pulvani”, il “Comandante del Battaglione Vega” chiamato Nino Buttazzoni e tanti altri. Questi determinati individui, in buona sostanza, ripresero il loro “Sanguinario Esercizio” per conto del governo americano impegnato nell’arginare l’“Avanzata Comunista Mondiale”. Gli attacchi alle suddette sedi dei partiti di sinistra, molto probabilmente, potrebbero essere state il frutto di una qualche collaborazione tra la banda Giuliano e questi “Gruppi Neo-Fascisti” appoggiati dal servizio segreto americano e dalla Mafia. Tutto ciò è razionalmente comprovato da alcuni singolari e indicativi fatti accaduti nell’ultimo periodo della vita di Giuliano: un giorno, in uno dei tanti covi intorno alle grotte che una volta si trovavano su Monte-Lepre, andò a trovarlo uno “Strano Giornalista Americano”, vestito da ufficiale dell’esercito alleato, di nome Mike Stern, infine al termine del mese di aprile nel 1947, Giuliano ricevette una strana lettera dalla madre. Turiddu, che in quei giorni era ospite della “Famiglia Genovese”, la lesse attentamente, la bruciò, poi chiamò gl’altri e disse: “E’ Giunta L’Ora della Nostra Liberazione”. La domanda, arrivati a questo punto, sorge spontanea: cosa c’era scritto, in realtà, in quella lettera, di così importante, tanto d’avere quel tipo di reazione? “I Saluti di Amici che stavano in America”, come disse una volta la madre, la promessa di un’amnistia se avesse fatto una certa cosa per conto terzi o entrambe le cose? Il contenuto di quello scritto, qualunque esso fosse, segnò l’inizio della fine della leggendaria storia della banda Giuliano. I sanguinari attacchi, alle sedi siciliane dei partiti di sinistra, furono, però, soltanto l’ultimo atto di una “Breve Stagione di Sangue” iniziata almeno un mese prima. La bellissima immagine di un “Moderno Principe dei Ladri”, infatti, s’era già, definitivamente infranta, con la “Strage di Portella della Ginestra”. Il 20 aprile di quell’anno, il popolo siciliano, era stato chiamato alle urne per eleggere l’“Assemblea Regionale”. Il risultato elettorale fu clamoroso. Il “Blocco del Popolo”, infatti, la coalizione delle forze di sinistra, ottenne una schiacciante vittoria sulla compagine di destra. Il “Tradizionale Equilibrio del Sistema di Potere Isolano”, vacillò pericolosamente. Girolamo Li-Causi, leader regionale del partito comunista italiano, forte del consenso popolare, guidò la protesta di contadini e braccianti contro lo strapotere di agrari e gabbellotti. Tutto ciò, purtroppo, produsse un “Feroce Scontro” che portò, infine, all’occupazione dei latifondi. Gli occupanti, però, non tennero conto del fatto che quei grandi appezzamenti di terra, a prescindere dal proprietario legale, erano dominio indiscusso di “Cosa Nostra Siciliana”. Il “Popolo Lavoratore”, infatti, si sentì talmente forte e sicuro di sé da riorganizzare un’altra volta, (dopo la fine della guerra), la “Festa del 1° Maggio”; ma anche la mafia, purtroppo, si stava organizzando perché quel giorno diventasse un “Momento Memorabile”. Il luogo prescelto per la “Manifestazione Festiva” fu la “Piana degli Albanesi” nella zona di Portella della Ginestra in provincia di Palermo. Gli organizzatori della giornata, però, all’epoca non sapevano ancora che, nei giorni precedenti alla festa, in quella stessa zona, c’era stata una strana riunione. Il luogo preciso dell’incontro, in realtà, fu la “Masseria Kaggio”, di proprietà di un mafioso della zona, Giuseppe Troia, che si trovava, per lo meno all’epoca a due passi dalla suddetta piana. I partecipanti, a quel particolare meeting, in buona sostanza, erano tutti mafiosi e gabbellotti, (almeno per quanto ne sappiamo), di quella parte della regione. Costoro, interrogati dagl’inquirenti, diedero due resoconti differenti della stessa giornata. Una loro parte, infatti, dichiarò che, in quella occasione, si era parlato di “Estagli”; gli estagli, però, (gl’accordi tra “Mezzadri” e padroni), non s’erano mai fatti in quella stagione. L’altra, invece, disse che quel giorno si raccolsero i soldi per la “Festa di San Giorgio”. La raccolta, in realtà, effettuata tramite tutta una serie di gabbellotti su vasta scala, chiedeva un gettito di denaro troppo esoso per una “Semplice Festa Patronale”. I dubbi che sorsero all’epoca dipesero anche dal fatto che non era mai accaduto, che personaggi di quel calibro, si mettessero a riscuotere personalmente queste forti somme di denaro. Gli inquirenti, infatti, sospettarono fosse servito a finanziare un progetto ancora più eclatante ma anche, come vedremo, terribile. La mattina del 1° maggio 1947, nella piana di Portella, alle 9:30, c’era già tantissima gente, arrivata in quel luogo, fin dalle 7:00. In quella splendida piana, però, c’erano appostati, fin dall’alba, gli uomini della banda Giuliano. Le loro “Principali Postazioni”, secondo le ultime ricostruzioni, furono almeno tre. Quella sul monte Pelavet, su cui c’era un gruppo di persone, capeggiato dallo stesso Giuliano, armato di “Moschetti-Modello 91”, “Fucili Automatici Americani” ed un “Fucile Mitragliatore Breda” con un “Tre-Piede”. Costoro, risalendo il Pelavet, quel giorno, si riunirono a un’altra frazione della banda formata da Salvatore Ferreri, (altrimenti detto “Fra-Diavolo”) dai fratelli Pianello e da altri picciotti. Il gruppo di Ferreri, a differenza di Giuliano, era armato con “Mitra Beretta Calibro 9”. Quella mattina, mentre Giuliano e i suoi si stavano preparando, (ormai l’abbiamo capito), alla loro terribile azione, sequestrarono quattro cacciatori che si trovavano a passare di li. Giuliano, pero, contrariamente a quanto si sarebbe dovuto fare in questi casi, (cioè eliminare possibili testimoni), decise di rilasciarli. L’astuto, ma giovane guerrigliero, però, prima di far questo, gli fece una “Strana Raccomandazione”: “Se vi Chiedono chi ha Sparato dite che eravamo in Cinquecento”. I fatti strani di quella mattina, però, non finirono li. La banda Giuliano, infatti, sempre quella mattina, buttò in un pozzo un semplice passante. Costui, infatti, forse, aveva visto troppo. Molti storici, infatti, in special modo negl’ultimi anni, hanno evidenziato l’esistenza di parecchi indizi che dimostrerebbero, con una certa ragionevolezza, che, intorno alla piana di portella, non c’erano soltanto i membri della banda Giuliano. Qualcun altro, infatti, era lì presente quel giorno. Costui, però, come vedremo, aveva ottimi motivi per non farsi riconoscere. Adesso, però, procediamo con ordine, raccontando, per prima cosa, i fatti storicamente accertati di quella tragica giornata. Il “Primo Oratore” di quella “Riunione Festiva”, avrebbe dovuto essere, secondo il programma, lo stesso Li-Causi. Egli, pero, fu bloccato all’ultimo minuto da “Importanti Impegni di Partito” (che fosse stato avvisato da qualcuno)? Il calzolaio Giacomo Schirò, viste le circostanze, fu iscritto a parlare. Assieme a lui, sul palco, c’era il sindacalista Vito Alliota. Schirò, però, non finì mai il suo discorso. Giuliano, infatti, non appena il calzolaio iniziò a parlare diede l’ordine di sparare. La folla radunata, non appena sentì i primi colpi, penso a dei mortaretti e iniziò ad’applaudire. Vito Alliota, però, subito dopo, quelle prime esplosioni, s’accasciò improvvisamente sul palco. Il gruppo di fuoco, in quella occasione, come in tante altre, si dimostrò di una “Spietatezza Glaciale”. Esso, infatti, arrivò perfino ad’abbattere, proprio come “Cani Randagi”, donne, uomini, bambini e alcuni muli. La sparatoria, infine, lasciò sul terreno 33 feriti e 12 morti di cui due bambini, di sette e dodici anni. La ricostruzione dei fatti di quel 1° maggio, resa pubblica dalla polizia, fu all’epoca curata dal maresciallo Lo-bianco. Egli, nel suo rapporto, indicò soltanto uno dei possibili “Punti di Fuoco” cioè quello sopra al Pelavet. In luogo, infatti, furono ritrovati sia i bossoli calibro 6,5 del mitra di Giuliano e sia i bossoli dei moschetti 91. In quel determinato posto, infine, furono ritrovati anche i bossoli dei fucili automatici di marca americana. I bossoli dei mitra beretta, invece, furono trovati sul “Monte Kumeta”. Il monte Kumeta, infatti, secondo l’ultima ricostruzione effettuata dall’“Associazione Vittime Portella della Ginestra”, era un altro “Punto di Fuoco”. Ferreri, col suo gruppo in sostanza, avrebbe fatto il giro della vallata, per appostarsi infine, proprio sul Kumeta. Questa particolare divisione dei compiti è stata recentemente comprovata da un’“Approfondita Analisi Medica” compiuta sul corpo di uno dei membri della suddetta associazione. I “Medici Legali del Policlinico di Palermo”, infatti, esaminando il torace di questo sopravvissuto, hanno scoperto che c’era ancora, in uno dei muscoli della suddetta parte del corpo, un proiettile calibro 9. Altri sopravvissuti hanno dichiarato d’aver visto sparare da un grosso canale posto sotto il Pelavet. In quel particolare settore, infatti, fu trovato nel 1997, un caricatore di un mitra beretta calibro 9. Altri testimoni, invece, hanno affermato d’aver visto sparare da dietro alcuni grossi massi che si trovano nella parte opposta rispetto a quella di piana degli albanesi. Quei grossi massi, inoltre, si trovavano sulla strada che collegava la piana degli albanesi con la masseria Kaggio. Tutti questi elementi appena posti in luce, però, ci portano a farci una domanda molto importante: la banda Giuliano fu realmente la sola a compiere la strage di Portella della Ginestra? Giuseppe Casarrubea, (presidente della suddetta associazione), aveva ipotizzato, qualche anno fa, basandosi su alcune testimonianze, il coinvolgimento della mafia. Giuliano, infatti, molto probabilmente, commise quel “Primo Orrendo Eccidio”e ne attuò, come abbiamo già visto, altri perché aveva avuto il compito di colpire, insieme alla mafia, i contadini che si stavano organizzando dopo la vittoria elettorale. Egli, infatti, come dimostrano recentissime ricerche, agiva per conto di “Precisi Mandanti Politici” che volevano sfruttare il terrore contro i contadini ed i sindacalisti. La banda Giuliano, infatti, secondo tali ricerche, eseguì quell’“Assurdo Bagno di Sangue”, insieme a una “Pattuglia della X Mas” Sbarcata a Palermo in gran segreto. La “Missione Siciliana” e le altre incursioni contro i “Rossi” in varie città d’Italia erano state programmate da quattordici mesi. Lo testimonia un “Cablogramma” datato 12 febbraio 1946, (già menzionato), indirizzato al “War Department” e firmato da Angleton in persona nel quale scrisse: “Ho bisogno immediatamente di almeno dieci agenti per aprire basi a Napoli, in Sicilia, a Bari e a Trieste”. Il documento, infine, terminava affermando che, come abbiamo già posto in luce, essi dovevano essere sottoposti ad un addestramento intensivo perchè servivano per operazioni militari.

Il coinvolgimento della X Mas, nei fatti di Portella, è testimoniato da alcune schegge, di alcuni colpi di “Lanciagranate”, ritrovate in alcuni cadaveri di persone morte in quell’occasione. Questo particolare tipo di arma, infatti, all’epoca, come oggi, era posseduto soltanto dai militari. Alcuni sopravvissuti, infine, hanno dichiarato di aver sentito, subito dopo la fine dell’“Infernale Sparatoria”, gridare “Urrà”! Questo particolare grido di vittoria, guarda caso era proprio quello usato dagli uomini della X Mas. La collaborazione tra Giuliano e Borghese nacque, a questo punto è ragionevole pensarlo, grazie alla lettera ricevuta dal bandito tramite la famiglia. In quel particolare documento, infatti, vi era, (secondo il mio modesto parere), la promessa, da parte delle più alte gerarchie militari americane, di supportare il bandito nella “Sua Avventura Separatista” se il “Giovane Guerrigliero” le avesse aiutate a fare “Piazza Pulita dei Comunisti” in Sicilia. Questa particolare tipologia d’accordo, a mio parere, è testimoniata da tre elementi per me decisivi: l’ingentissima riscossione di denaro organizzata dai mafiosi tramite i gabbellotti di cui abbiamo già parlato (dovevano raccogliere soldi per rifinanziare un rinnovato EVIS). La strana richiesta di Giuliano ai quattro cacciatori di dire che la sua banda era formata da cinquecento uomini (Giuliano voleva alimentare l’immagine di un movimento separatista ancora forte). La presenza, su i luoghi degli attacchi alle sedi dei partiti di sinistra, (Partinico, San Cipirrello e etc) di un cartello con sopra scritto: “Siciliani l’Ora Decisiva è Scoccata. Chi non vuole essere, Facile Preda, della Canea di Rossi, E’ Necessario che Oggi si decida. Quegl’Uomini che Vogliono Buttarci in Grembo alla Russia, dove la Libertà E’ una Chimera e la Democrazia, una Leggenda, Devono Essere Combattuti. Io ho Assunto questo Impegno, ma E’ Necessario che tutti i Fratelli Siciliani mi Seguano per aprire un Nuovo Ciclo di Storia, Veramente Gloriosa che dovrà Redimerci, Rendendoci Degni di questa Nobile Sicula Terra”. Giuliano, subito dopo le stragi, stranamente, si sentì amato e protetto dalla gente. La sua vecchia amicizia con la mafia, però, finì di punto in bianco. I membri della sua banda, infatti, nell’ultimo periodo della loro “Sanguinaria Avventura”, sembrarono perseguitati da una “Strana Sfortuna”. I carabinieri, in sostanza, portarono a compimento una serie di azioni che fecero sgretolare, in pochissimo tempo, tutta la banda. Tutto ciò fu il frutto di “Mere Coincidenze” oppure il risultato di un lavoro ben fatto?! Le forze dell’ordine, immediatamente dopo i suddetti eccidi, riuscirono, grazie a un paziente lavoro di persuasione, ad avere collaboratori all’interno della stessa stretta cerchia di amici di Giuliano. Il primo collaboratore, proveniente dalla banda Giuliano, fu Fra-Diavolo. Ferreri, in realtà, dopo la fine dell’“Avventura Separatista”, aveva deciso di rifugiarsi a Firenze. L’ispettore Messana, non appena scopri dove si nascondeva, comprese benissimo che Ferreri s’era trasferito a Firenze perché stufo di fare sempre quella vita: continuamente braccato dalla polizia. L’anziano e scaltro poliziotto, però, facendo leva proprio su questo, (tramite il padre del giovane), riuscì a farlo ritornare in Sicilia, giusto in tempo, per l’“Affare di Portella”. Il 26 giugno 1947, però, Ferreri e il suo gruppo furono eliminati dalla scena tramite un conflitto a fuoco in circostanze mai chiarite. In quel particolare scontro, è bene precisarlo, morì anche il padre di Ferreri che, molto probabilmente, aveva avuto solo la sfortuna d’aver incontrato Messana un paio di volte e basta. La presenza di Fra-Diavolo, in sostanza, serviva, soltanto, a controllare che Giuliano compisse le stragi a sfondo politico. Una volta, però, assolto quel compito Fra-Diavolo, diventava un “Testimone Scomodo”. I collaboratori di Messana, però, in quell’occasione, non ebbero, molto probabilmente, l’opportunità di mirare bene. Ferreri, infatti, morì, soltanto, qualche ora dopo in caserma per mano del “Tenente Roberto Gianlombardo”. Fra-Diavolo, infatti, secondo la versione ufficiale, mentre era interrogato, aggredì Gianlombardo riuscendo a sfilargli la “Pistola d’Ordinanza” e a tentare di sparare. Gianlombardo, però, (grazie al fatto che c’era la sicura), riuscì a prendere una “Beretta 6, 35” e a uccidere Ferreri colpendolo due volte in mezzo agl’occhi. Nella versione ufficiale, però, ve ne sarete accorti anche voi, c’è qualcosa che non torna: qual è, infatti, il motivo per cui, Gianlombardo, sparò a Ferreri ben due volte sulla fronte, piuttosto che sul braccio o su una gamba? Una plausibile spiegazione potrebbe essere che Gianlombardo, dopo aver finito d’interrogare Ferreri, con la “Silenziosa Complicità” dei suoi colleghi, l’abbia ucciso e poi inscenato la “Legittima Difesa”. Lo stesso giorno della morte di Ferreri e del suo gruppo, inoltre, morirono altri cinque persone sempre appartenenti alla banda Giuliano. Un’altra spia, molto importante per la storia che stiamo raccontando, fu il mafioso, (vi prego di non ridere quando leggerete il suo nome), Benedetto Minasola. Minasola, all’inizio, era un confidente di Lo-bianco. Lo-bianco aveva agganciato il giovane malvivente, tramite un’estenuante opera di persuasione. Minasola, infatti, alla fine decise di collaborare e di consegnare Giuliano ai carabinieri dicendo al suo amico Lo-bianco queste esatte parole: “Io ci tenterò, ma Bada che c’Andrà di Mezzo la mia Vita, ma anche la tua”. Questa particolare collaborazione tra Minasola e Lo-bianco, anche se fruttuosa, durò pochissimo. Lo-bianco, infatti, pur riuscendo a farsi consegnare, tramite questo particolare accordo, alcuni componenti della banda Giuliano, (fingendosi un amico di nome “Don Peppino”), fu scalzato dalla direzione delle indagini. Questo successe, sempre secondo Lo-bianco, perché il colonnello Ugo Luca, aveva una sola preoccupazione: quella di essere, lui stesso, l’assoluta protagonista della cattura di Giuliano. Costui, infatti, quando vide che il lavoro intrapreso da Lo-bianco, stava portando a buonissimi risultati, diede a Lo-bianco un ruolo di secondo piano, mentre, nominò Perenze, suo fidato amico, capo delle operazioni. Giuliano, nell’ultimo periodo della sua vita, (grazie al lavoro compiuto da Lo-bianco con Minasola), fu molto preoccupato. Egli, infatti, insospettito dalla scomparsa di molti dei suoi uomini, mandò a prendere Minasola per interrogarlo. Costui, incalzato dalle orribili accuse di Giuliano, alla fine, decise di confessare: a tradire, il famoso capo-banda, disse Minasola, erano stati, in realtà, i “Fratelli Miceli” cioè i boss mafiosi della sua zona di pertinenza. La mafia, infatti, subito dopo le stragi, sembrò aver dimenticato completamente Giuliano e la sua banda; quasi come se fosse stato un oggetto vecchio e ormai inutile. Giuliano, non appena sentì una “confessione Convincente” se né andò dicendo a chi aveva scortato Minasola fin lì d’ucciderlo. Minasola, però, non appena rimase solo, con quello che avrebbe dovuto essere il suo “Carnefice”, offrì all’altro una congrua via d’uscita per entrambi: consegnare Giuliano alle forze dell’ordine. I due discussero animatamente. L’uomo di fiducia di Giuliano, a un certo punto, prese un pugnale e col sangue agl’occhi stava quasi per sgozzare Minasola come un maiale; poi, però, guardò in faccia Minasola e tirò un lungo respiro e lasciando cadere l’arma, s’accasciò sulla sedia, dicendo, col viso pieno di lacrime, qualcosa del genere: dimmi, che cosa dobbiamo fare? Quell’uomo, infatti, che rispondeva al nome di Gaspare Pisciotta, non aveva aggredito Minasola, in quel modo così violento, per rispettare l’ordine di “Suo Cugino Turiddu”, ma perché Minasola, con la sua proposta, aveva contribuito a mettere a nudo, una volta per tutte, l’anima dello stesso Pisciotta: quella di un “Debole”, un “Vigliacco”. Pisciotta, infine, avendo accettato la proposta di Minasola, lo seguì dai carabinieri. Minasola, infatti, lo presentò a Lo-bianco, che a sua volta lo presentò al colonnello Luca che, sempre a sua volta, lo presentò a Perenze. Quest’ultimo, per conquistarsi la fiducia di Pisciotta, lo portò dal dottore, perché il guerrigliero era ammalato di tubercolosi, dopodiché lo invitò ad alloggiare a casa sua. La sera del 4 Luglio 1950, secondo il rapporto 213/24 del 9 Luglio, (indirizzato al comando Forze Repressione del banditismo in Sicilia-Gruppo Squadriglia Centro), Giuliano, Pisciotta e un altro amico mangiarono a casa dell’avvocato De-Maria. A tarda notte, finito di mangiare, uscirono dalla casa e si incamminarono verso la macchina; a tal punto il terzo uomo s’accorse che c’erano appostati nei dintorni alcuni uomini armati e incomincio a sparare. Giuliano apri a sua volta il fuoco. Pisciotta, invece, scappo con le scarpe in mano nei vicoli di Castel Vetrano. Giuliano, ferito a un fianco, continuando sempre a sparare si riparò dietro un lampione che gli illumino il volto e diede cosi l’occasione al capitano Perenze di riconoscerlo e dargli il colpo di grazia. L’analisi della fotografia del corpo di Giuliano, uscita il giorno dopo su tutti i quotidiani, pone però, in luce molte discrepanze nella versione ufficiale; il corpo di Giuliano infatti aveva un sandalo slacciato, la cintura dei pantaloni che saltava due passanti, delle escoriazioni sulle braccia come se fosse stato trasportato sotto braccio e la canottiera sporca di sangue sulla schiena. La domanda sorge spontanea, come ha fatto a sporcarsi la canottiera solo sul retro, mentre il rapporto ufficiale affermò che Perenze lo sparò di fronte? Il cadavere secondo il primo rapporto non fu trasportato, mentre le escoriazioni dimostrano il contrario. Cosa è successo in casa De-Maria?

Andiamo per ordine. Quella sera, Pisciotta, si fece accompagnare da Perenze vicino alla casa dell’avvocato e fece un tratto di strada a piedi per non farsi scoprire da Giuliano. Turiddu, in realtà, aspettava con in pazienza il cugino perché aveva saputo da Verdiani che il suo “Braccio Destro” s’era messo a collaborare con i carabinieri. Giuliano, infatti, aveva organizzato quella cena, forse proprio per capire le ragioni che avevano spinto il suo congiunto a tradirlo e magari organizzare una bella trappola per i carabinieri. La cena di Giuliano, che fu consumata insieme a un altro convitato, il mafioso Giuseppe Marotta, era a base di Pane, Formaggio, Olive e Vino. Giuliano, però, non sapeva che il suo bicchiere di vino era drogato. Turiddu, infatti, appena bevve l’ultima sorsata crollò sul letto messo a disposizione dal “Padrone di Casa”. Pisciotta, senza farsene accorgere, seguì il cugino. Egli, infatti, stava per compiere una delle azioni più atroci e vigliacche che si possono immaginare. Il congiunto di Giuliano, però, prima fece entrare nella stanza un altro mafioso Nunzio Badalamenti e lo aiutò a recuperare alcune carte scritte dal cugino. In quegl’ultimi tempi, infatti, Giuliano, molto probabilmente, aveva tenuto un “Diario Giornaliero” delle sue attività. Pisciotta, poi, (verso le 3:15 del 6 luglio), sparò mortalmente a Giuliano sul fianco sinistro del corpo mentre dormiva. Pisciotta, infine, corse da Perenze che stava aspettando il segnale di Pisciotta per avere l’opportunità d’intervenire con tutti i suoi uomini e disse: “Ho Dovuto Sparagli”. Perenze, fattosi raccontare la “Storia” da Pisciotta, decise di confezionare la “Prima Versione Ufficiale”. Egli, infatti, aiutò Pisciotta a rivestire Giuliano, a portarlo in strada per metterlo in posa per la foto e scaricando, infine, sul cadavere una “Raffica di Mitra”. Tutto ciò, sembrerebbe confermato dalla privilegiata di Franco Grasso che all’epoca era responsabile della cronaca della testata giornalistica “La Voce della Sicilia”. Le cose, però, quella sera andarono veramente così? Giuseppe Casarrubea, in una sua intervista rilasciata alla RAI, qualche tempo fa, riportò una dichiarazione dell’avvocato De-Maria che dice di aver incontrato, a un certo punto della notte, lo stesso Pisciotta che disse: “Avvocato Stanno Sparando”. Questa particolare dichiarazione, in buona sostanza, se fosse stata resa all’epoca in un tribunale, forse avrebbe scagionato Pisciotta dall’omicidio del cugino. oltre a porre due domande molto importanti: chi ha ucciso Salvatore Giuliano? Quale sarebbe stato il movente di questo delitto a sangue freddo? Giuliano e Ferreri, in buona sostanza, ormai sapevano troppe cose e furono, come abbiamo appena visto, uccisi in circostanze misteriose che coinvolgevano rispettivamente il tenente-colonnello Roberto Gianlombardo e dal capitano Antonio Perenze entrambi comandati dal colonnello Ugo Luca braccio destro dell’ispettore di polizia Ettore Messana che a sua volta eseguiva ciecamente gl’ordini del ministro Mario Scelba. Il ministro Mario Scelba, il ministro Salvatore Aldisio e il sottosegretario Bernardo Mattarella, tutti siciliani, erano discepoli prediletti di Don Luigi Sturzo che esule in America manteneva i contatti con i suoi pupilli in Sicilia grazie ad un giovane ufficiale dei servizi segreti americani Joe Calderon. Calderon, attraverso Angleton, era agli ordini di William Donovan. William Donovan, altrimenti detto Wild Bill, prima della seconda guerra mondiale faceva il consulente per il presidente americano, ma poi diventò Wild Bill. Costui era un tipo tarchiato, grosso, deciso, completamente privo di scrupoli ed era collaboratore di Harry Truman, presidente degli Stati Uniti d’America, che era pronto ad intervenire in ogni nazione in cui si presentava un “Pericolo Comunista”. Pisciotta in carcere fece delle dichiarazioni che coinvolgevano nella organizzazione della strage di Portella sono stati: Bernardo Mattarella, Leone Marchesano, Cusumano Geloso, e il principe Giovanni Francesco Alliata. Costui era amico e pupillo di Padre Felix Morlion, il quale era il fondatore della “Prudon”, che era il servizio segreto dei cattolici europei con sede a Lisbona, negli Stati Uniti e nel Vaticano. Costoro erano collegati con Donovan attraverso Giambattista Montini, capo del servizio segreto del vaticano sotto il pontificato di “Pio XII”: il Papa che lanciò la crociata Anticomunista nel mondo. Il segretario particolare di Montini era Giulio Andreotti, che un mese dopo i fatti di Portella, diventò sottosegretario del primo Governo presieduto da Alcide De-Gasperi senza i comunisti. De-Gasperi, infatti, era andato in America a ricevere i soldi del piano Marshall da Harry Truman che, però, gli aveva imposto di cacciare i comunisti dal Governo. L’eliminazione di Giuliano segnò anche la chiusura del suddetto comando speciale dei carabinieri in Sicilia. Pisciotta, dopo la morte di Giuliano, restò sotto la protezione dei carabinieri. Egli, infatti, riuscì anche a partire per Roma con l’intento di parlare con alcuni uomini politici per non finire in carcere. Egli, infatti, dopo aver avuto tutte le rassicurazioni del caso, tornò a Monte-Lepre dove teneva la famiglia e la fidanzata. Pisciotta, in sostanza, sotto la protezione dei carabinieri si sentiva tranquillo. Un giorno, però, la polizia, forse grazie a una soffiata, andò a catturarlo. Il suo arresto fu eseguito dal questore di Palermo in persona. Il processo per la strage di Portella della Ginestra si tenne a Viterbo nel 1952. Pisciotta, condannato in primo grado all’ergastolo per i fatti di Portella, si sentì tradito e annunciò che avrebbe detto tutto al “Processo d’Appello”. Egli, infatti, scrisse quattordici quaderni d’appunti. Nei primi giorni di febbraio del 1954, Pisciotta, fu ricevuto dal sostituto procuratore di Palermo, Pietro Scaglione. Scaglione, però, in quel determinato incontro non verbalizzò nulla per sicurezza. Scaglione, infatti, promise di tornare dopo qualche giorno per registrare le dichiarazioni del detenuto. Il giudice Scaglione, però, non fece mai in tempo. Pisciotta, infatti, morì il 9 febbraio 1954 avvelenato dalla Stricnina che fu messa nel medicinale per la tubercolosi. La sua morte chiuse, forse per sempre, il coperchio su uno dei più oscuri misteri d’Italia.

Antonio Aroldo

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